31/03/18

Sull'inchiesta tra le lavoratrici, precarie, disoccupate, migranti avviata nello sciopero delle donne

Verso metà aprile uscirà un dossier sull'8 marzo, in esso troverete una prima lettura/dati del questionario che il Mfpr ha proposto e diffuso, direttamente nelle realtà lavorative in cui poteva arrivare e anche on line, in occasione dello sciopero delle donne dell'8 marzo 2018.

Un questionario per conoscere, rendere visibile, denunciare la condizione delle donne sui posti di lavoro e fuori dal lavoro, per entrare in contatto e costruire una RETE tra le lavoratrici, disoccupate, per unire realtà, posti di lavoro, lotte, per estendere lo sciopero delle donne, per costruire la nostra piattaforma e un nuovo dossier nazionale, come strumento di lotte, mobilitazioni verso padroni, governo.

I dati finora raccolti e arrivati sono ancora parziali. E' molto limitata ancora una voce importante in questa inchiesta, quella delle operaie delle fabbriche e delle migranti, che pure hanno scioperato. 

Si pone quindi il problema di rimodularne l’impostazione dell'inchiesta e la diffusione del questionario, sì da renderlo un efficace strumento conoscitivo e propositivo a livello di massa e in una prospettiva più a lungo termine.

Tuttavia, da un primo bilancio dei dati sinora raccolti attraverso il questionario, e l'inchiesta diretta, che ha raggiunto anche settori di lavoratrici non ancora in lotta e lavoratrici che lottano per un miglioramento delle loro condizioni lavorative ma non sono state adeguatamente informate e sensibilizzate sullo sciopero delle donne, emergono già alcuni elementi importanti.

Il questionario resta quindi uno strumento importante da continuare ad utilizzare, estendere, far arrivare nel maggior numero di posti di lavoro, o realtà di lotta, per dare la parola alle proletarie, e unire le varie realtà.

Compila il MODULO e invia, oppure scarica il modulo, raccogli le risposte e inviale

MFPR

"PARTECIPAZIONE" = CORPORATIVISMO SINDACALE, AL SERVIZIO DEL MODERNO FASCISMO


Questo articolo uscito sul "Corriere Economia" del 26 marzo ha il "merito" di dare un quadro sintetico della politica e azione della Cgil che troverà piena ratifica nel suo congresso.
La linea Calenda e Bentivogli con il “Piano industriale per l’Italia delle competenze” avviata ad inizio anno, la linea e filosofia dell'Assise generali della Confindustria di Verona sulla nuova organizzazione del lavoro, del salario, trovano ora l'altro tassello che serve al capitale.
Esso va, come abbiamo già scritto, oltre la "normale" concertazione, svendita da parte del sindacalismo confederale. Siamo nel passaggio del sindacalismo ad essere parte integrante e attiva del moderno fascismo padronal-istituzionale, che per passare/imporsi tra i lavoratori ha necessità di avere nel sindacato un anello importante.
Per questo la borghesia, attraverso i suoi giornalisti, dà il "benvenuto" alla Cgil.


Come avviene questo passaggio per la Cgil, che ha già trovato nella firma del "Patto di fabbrica" il suo battesimo?
La "partecipazione", spiega la Cgil di Camusso/Landini, deve essere "intesa come coinvolgimento dei lavoratori alle decisioni dell'impresa, un "pilastro" delle nuove relazioni industriali".
Ecco, questo si chiama corporativismo! che, come per il passato, è compagno necessario di strada del moderno fascismo.
Esso si fonda sulla fine della contrapposizione tra interessi del capitale e quelli degli operai, tra sfruttamento, lavoro salariato al servizio del profitto padronale e difesa delle condizioni di lavoro, salariali dei diritti dei lavoratori, sull'azzeramento, quindi, della lotta di classe.
"Partecipazione", "confronto", "codeterminazione" sono le "bandierine" per far passare l'unità di interessi tra padroni e operai - il "siamo tutti sulla stessa barca", solo che gli operai remano e il padrone si prende i pesci - che in realtà significa che gli operai, non solo devono continuare ad essere sfruttati, precarizzati sempre di più, ma devono anche partecipare/contribuire attivamente ai cambiamenti necessari al padronato. O ancora di più, che gli operai attraverso la "partecipazione alla gestione delle imprese" - cioè accettando e condividendo la propria subordinazione al capitale - possono realizzare i loro interessi: "La codeterminazione - ha detto il segretario della Cgil Franco Martini - presuppone un salto culturale, dove l'impresa non appaia più per il lavoratore luogo solo di subordinazione e di passività, ma luogo di una possibile autorealizzazione". Della serie: ammazzati e felici...



Questa nuova/vecchia scoperta del corporativismo non solo porta ad un nuovo peggioramento concreto delle condizioni di lavoro, salariali, alla cancellazione di diritti dei lavoratori, ma spinge alla divisione, concorrenza tra lavoratori, con rafforzamento di settori (molto ristretti) di aristocrazia operaia a fronte di una massa di lavoratori supersfruttati.



Ma ci riusciranno? Gli operai glielo permetteranno? Sarà per questo che a Landini viene un dubbio: "come facciamo a conquistare spazi di codeterminazione?... siamo in grado di sviluppare una contrattazione di questa natura?...

23/03/18

Torino - muore donna nigeriana malata e incinta perché respinta alla frontiera, in Francia come in Italia solo morte per i piú deboli i più poveri !

Una migrante incinta e con un grave linfoma è morta dopo essere stata respinta alla frontiera tra Italia e Francia
 
Incinta di poche settimane e con un grave linfoma, è stata respinta alla frontiera di Bardonecchia dalle autorità francesi e, dopo il parto cesareo, è morta all'ospedale Sant'Anna di Torino. B.S., nigeriana di 31 anni, era stata soccorsa dai volontari di Rainbow4Africa. "Le autorità francesi sembrano avere dimenticato l'umanità", dice all'Ansa Paolo Narcisi, presidente dell'associazione che da dicembre ha aiutato un migliaio di migranti. La nascita del bimbo, 700 grammi, è un miracolo ed è gara solidarietà per aiutarlo.

"I corrieri trattano meglio i loro pacchi", rincara la dose Narcisi, secondo cui respingere alla frontiera una donna incinta e malata "è un atto grave - dice ai microfoni del Tg3 - che va contro tutte le convenzioni internazionali e al buon senso, proprio come criminalizzare chi soccorre". E' dei giorni scorsi la notizia di una guida alpina francese che rischia una condanna fino a cinque per avere soccorso un'altra migrante incinta.

"Tutto questo è indice di una paura strisciante, ma non bisogna avere paura", aggiunge il presidente di Rainbow4Africa, che ha lanciato la campagna Facebook 'soccorrere non è un crimine'. "Un giorno potremmo esserci noi al loro posto...".

La nigeriana è stata ricoverata un mese al Sant'Anna di Torino, seguita dall'Ostetricia e Ginecologia diretta dalla professoressa Tullia Todros e dall'ematologia ospedaliera delle Molinette diretta dal dottor Umberto Vitolo. E' stata tenuta in vita il più possibile, per consentirle di portare avanti la gravidanza. Il neonato è ora ricoverato nella Terapia Neonatale del Sant'Anna, diretta dalla professoressa Enrica Bertino, assistito dal padre, anche lui respinto alla frontiera.

Licenziata perché si è rifiutata di servire un lurido razzista


Una ragazza di Milano è stata licenziata per essersi rifiutata di servire Matteo Salvini. L’episodio si è verificato nel pomeriggio del 20 marzo. Secondo quanto scrive la stessa gelateria (Baci sottozero di Piazzale Siena) una giovane impiegata si è “rifiutata di servire un cliente per ideologie politiche”. Un comportamento insostenibile per la gelateria per cui comportamenti del genere “poco hanno a che vedere col lavoro”. Baci sottozero nega ci sia stata una pressione da parte di Salvini, la circostanza però è stata resa nota dalla madre della gelataia che riferisce di una telefonata del segretario leghista per lamentarsi di quella ragazza che aveva saputo tenergli testa. In ogni caso l’impiegata è stata licenziata (tanto era in prova, dicono dalla pagina di Baci sottozero).
Cosi è il lavoro al giorno d’oggi, gli impiegati devono essere degli automi, lo spirito critico e il coraggio di prendere posizione sono il peggior difetto mentre la precarietà rappresenta il ricatto costante per cui bisogna dire sempre sissignore.
Per fortuna, anche davanti alle bassezze di politici che usano i propri privilegi per colpire chi ha il coraggio di far sentire il proprio dissenso, c’è ancora chi ha la schiena dritta e non confonde la merda con la cioccolata.


22/03/18

Venerdì e sabato Bologna in piazza per Afrin e contro il razzismo

Da tavolo 4:
 
Vi aspettiamo domani venerdì 23 alle 17,30 in piazza Nettuno per dare tutta la nostra solidarietà
alla resistenza ad Afrin, che con dignità e determinazione ha resistito e continuerà a 
resistere contro l'attacco fascista di Erdogan finanziato dall'Europa. 

Saremo presenti anche sabato 24 alle 14 in piazza XX settembre contro il razzismo e la 
guerra contro i migranti, che si collega con le manovre razziste europee che riempono
le tasche del dittatore Erdogan per la "gestione dei migranti".

E domenica 25 dalle 11 saremo ad Armonie (via Emilia Levante, 138) a rendere omaggio 
a Sandra Schiassi, compagna che vive nei nostri cuori e lotta insieme a noi!

Amazora

LA STRAGE DELLE DONNE CONTINUA, "GRAZIE" AGLI OCCHI "VIGILI" DI POLIZIA E ISTITUZIONI

Sono almeno quindici le donne uccise dai loro compagni dall'inizio del 2018, gli ultimi due casi sono avvenuti nel Siracusano - dove a perdere la vita è stata la giovanissima Laura Petrolito, per mano del compagno - e nel Napoletano, dove Immacolata Villani, 31 anni, dopo aver accompagnato la figlia a scuola, è stata uccisa dal marito, che poi si è tolto la vita.

SONO FEMMINICIDI MOSSI DA UN ODIO CONTRO LE DONNE CHE SI RIBELLANO ALL'OPPRESSIONE.
Questo odio per le aberranti concezioni che esprime - di possesso, donna e figli come proprietà, sulla famiglia, sull'autorità del maschio, ecc. - E' FASCISTA! 

Un fascismo alimentato a piene mani contro le donne da questo Stato, dalla sua polizia, dai suoi Tribunali, dai suoi governi, dalle sue Istituzioni, dai mass media; un fascismo che, come è nel suo Dna, si diffonde anche in concezioni "giustificazioniste" e moderno patriarcali, tra settori arretrati delle masse. 

E non è un caso che sempre più sessismo, oppressione - come denunciano anche i movimenti delle donne - si coniugano con idee e politiche razziste, fasciste.

Ma come contro il fascismo non basta la denuncia, ma serve l'antifascismo militante; così contro l'odio fascista contro le donne, i femminicidi serve la mobilitazione militante delle donne contro lo Stato, e i suoi organi, contro gli uomini assassini e chi li difende.

16/03/18

ACCORDO CONFINDUSTRIA/CGIL-CISL-UIL: LA DITTATURA SINDACALE


L'articolo "Il "regalo" alle lavoratrici per l'8 marzo di Camusso/Cisl/Uil e padroni" sul nuovo modello contrattuale ha suscitato alcuni commenti, nella mailing list di nonunadimeno, alcuni negativi altri no.
Ne riportiamo alcuni:
  • "Certo fa impressione vedere le mani di politici, confindustria (controparti di lavoratrici e lavoratori) e sindacati (che dovrebbero rappresentare lavoratrici e lavoratori) strette una all'altra e sentire parlare di accordo positivo. Sono 40 anni ormai che questi "concertano"e fanno patti, con i risultati che conosciamo tutte, e ancora non basta?... l'accordo è una ennesima iattura per tutti, in primis le donne". 
  • direi che allegare il testo dell'accordo sarebbe stato cosa utile e gradita dal momento che ci si rivolge a una platea che non è detto si occupi quotidianamente di modello contrattuale...specifico che non sto difendendo l'accordo che pur trovo positivo ma che sto criticando l'uso di questo indirizzario per le proprie propagande (perché affermare che a prescindere un sindacato di base è migliore di uno confederale o di un altro è pura propaganda - in quanto i giudizi si danno sulle azioni ai vari livelli e non in modo generico e anche in quanto i sindacati di base sono miriadi e dentro c'è di tutto....).
  • "E' ora di finirla con queste decisioni scellerate a discapito dei lavoratori che "lorsignori " dei sindacati concertativi usano solo per mantenersi ben saldi alle loro poltrone.Sia i Contratti Nazionali che gli accordi oramai salvaguardano solo il benessere dei padroni creando così  stipendi da fame per i lavoratori e incentivi per i vari capi e capetti. Io direi che è arrivata l'ora che si miri a sradicare questo regime e che i sindacati di base, oramai messi in angolo proprio dagli accordi fatti da "lorsignori", facciano di tutto, che tutti noi facciamo di tutto, per dare dignità ai lavoratori sempre più sottopagati e sfruttati.

*****

In effetti è necessario tornare proprio sulla questione dei sindacati che nel punto dell'accordo è affrontato nel capitolo "Democrazia e misura della rappresentanza" che, guarda caso (?), all'inizio si sofferma sul TU sulla rappresentanza del 10 gennaio 2014 che fissa le strette regole e i paletti per cui i sindacati possono essere "rappresentanti" dei lavoratori e sedersi ai Tavoli contrattuali.
"Guarda caso", perchè, come abbiamo scritto il dieci marzo sul "patto di fabbrica", la "misura della 
rappresentanza" agirà soprattutto, o solo, per escludere i sindacati decisi dai lavoratori:
"...perchè tutto questo passi senza ostacoli - scrivevamo - questo "patto" doveva mettere e mette il "catenaccio" alle rappresentanze sindacali, leggi sindacati di base, di classe (in particolare a quelli che non hanno accettato il TU sulla rappresentanza già firmato il 10 gennaio 2014). I mass media fanno passare questo punto dell'accordo soprattutto come "certificazione della rappresentanza datoriale", ma in realtà mentre questa certificazione è solo fumo, rinviata sine die, ciò che è certo e agisce da subito è il nuovo pensante attacco al sindacalismo di classe, ai diritti sindacali dei lavoratori". 

Esso di fatto pone l'obbligo ai lavoratori di iscriversi solo ai sindacati confederali per essere riconosciuti come “titolari di diritto sindacale”. Sono azienda e sindacati confederali che decidono l'iscrizione al sindacato dei lavoratori. E' evidente come in questo modo venga uccisa la libertà sindacale dei lavoratori, e l'iscrizione al sindacato diventa una sorta di dittatura (vi sono già esempi di aziende in cui la sottoscrizione del contratto avviene nello stesso momento in cui il lavoratore firma la delega al sindacato, il lavoratore ha di fronte, spesso allo stesso tavolo, il rappresentante padronale e il funzionario sindacale). Nello stesso tempo per questa strada si reintroduce il "sindacato giallo", quello funzionale al padronato. 

Questo nessuno e nessuna può permettersi di sottovalutarlo! Chiamando "propaganda" anni e anni di fatti, accordi, patti, che hanno tolto salari, diritti, posti di lavoro, garanzie ai lavoratori, spezzandone la forza e l'unità come classe e consegnandoli "mani e piedi legati" allo strapotere dei padroni.
Come nessuno e nessuna può permettersi di fare del qualunquismo sui sindacati di base, che in questi lunghi anni sono stati e sono la risposta necessaria da parte dei lavoratori più avanzati, più coscienti per riprendersi nelle mani l'organizzazione e la lotta sindacale svenduta, per riaffermare che lo scontro è di classe tra lavoratori e padroni. In questo, sì, che sono "migliori" dei sindacati confederali.

Ancora la strada per essere all'altezza della pesante battaglia in atto, per servire l'unità della classe, contro divisioni e corporativismo attuati da "l'associazione a delinquere Confindustria/Cgil-Cisl-Uil", non è semplice e ha problemi interni al sindacalismo di base e di classe. Ma questi sono fatti nostri!

15/03/18

Il business della Montello ha dietro il lavoro sporco delle donne, immigrate - ma l'8 marzo hanno scioperato!

Dal tondino alla differenziata L’arte dell’economia circolare - Il caso dell’azienda Montello: oggi trasformano i rifiuti della Lombardia

Dal Corriere della Sera di oggi: "...Oggi la Montello ha raddoppiato i suoi dipendenti (sono 662) e tratta ogni anno 200 mila tonnellate di rifiuti plastici, più o meno quelli prodotti da 8 milioni di abitanti, mentre è in crescita l'altro grande business dell'azienda, il riciclo di rifiuti organici... La Montello è diventata anche un'azienda virtuosa: funziona con energia autoprodotta, riutilizza tutta l'acqua delle lavorazioni, svolge opera di alfabetizzazione sulle numerose scuole in visita e, ed è alla ricerca di nuovi business...".

MA SULLA PELLE DI CHI STA COSTRUENDO PADRON SANCINELLI QUESTA FORTUNA? 

Ce lo hanno detto le operaie della Eko-Var una delle tante cooperative che lavorano nella Montello; le donne, di cui la maggioranza immigrate, che fanno il vero lavoro tra i rifiuti.
La faccia "pulita" della Montello, i suoi profitti, ha dietro il lavoro "sporco" delle cooperative dell'appalto, in cui le donne sono pagate meno degli uomini, in cui lavorano 8 ore ma ne vengono pagate meno, operaie a cui vengono negati diritti sindacali, che subiscono ricatti di ogni tipo...
Ma l'8 marzo queste operaie con coraggio hanno scioperato per la prima volta! 

Sciopero delle operaie a Montello


Brasile, nuovo crimine reazionario - Uccisa l'attivista Marielle Franco - Il comunicato di NUDM

“Le rose della resistenza nascono dall’asfalto, siamo quelle che ricevono rose, ma siamo anche quelle che con il pugno chiuso parlano dei nostri luoghi di vita e resistenza contro gli ordini e soprusi che subiamo.” 
Marielle Franco

Apprendiamo con dolore, rabbia e sconcerto dell’uccisione a Rio de Janeiro di Marielle Franco, 39 anni, militante femminista nera del Partito Socialismo e Libertà (Psol). Quinta consigliera comunale di Rio nelle elezioni del 2016, era nata nel Maré, una favela a nord della città e, per questo, amava definirsi “cria da Maré, “figlia della Marea”.

Attivista femminista, nera, sempre in prima linea per i diritti umani nelle favelas, contro lo sterminio delle popolazioni nere è stata uccisa. Una vera e propria esecuzione: è stata freddata con diversi colpi di pistola alla testa provenienti da una macchina che ha affiancato la sua. Insieme a lei è stato ucciso l’autista e gravemente ferita una sua collaboratrice. Marielle rientrava da un evento di femministe nere dove aveva difeso le politiche educative rivolte alla popolazione povera e nera, ricordando come lei stessa fosse riuscita a fare l’Università grazie ad esse.

Da settimane andava denunciando l’aumento della violenza e della brutalità della polizia nelle favela di Acari da parte del 41º Battaglione della Polizia Militare di Rio de Janeiro. Un giorno prima del suo assassinio scriveva in uno dei suoi ultimi tweet “Un altro omicidio di un giovane è entrato nella lista di crimini commessi dalla Polizia Militare. Matheus Melo stava uscendo da una chiesa. Quante persone ancora devono morire prima che questa guerra finisca?”

Questo omicidio, perpetrato a pochi giorni dallo sciopero globale dell’otto marzo, è un segnale della forte repressione in atto in Brasile, nei confronti di chi, come Marielle, donna nera e femminista, critica apertamente il presidente in carica Temer, per le sue politiche repressive contro le popolazioni più povere, e in particolare contro le persone di colore e le donne.

Il Presidente ha deciso all’inizio dell’anno di inviare l’esercito a Rio de Janeiro affidandogli il controllo e la sicurezza della città, per arginare quella che è stata presentata come un’escalation di violenze, in particolare di genere. In Brasile, secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, il tasso di femminicidi è di 4,8 per 100mila donne, il quinto posto a livello mondiale.

Marielle era entrata a far parte il 28 febbraio della Commissione che doveva monitorare l’intervento militare, che lei, insieme ad altri attivisti, consideravano un dispositivo per controllare e reprimere la popolazione nera e povera della città, usato dal Presidente a fini elettorali. La consigliera era stata tra le protagoniste delle manifestazioni massicce del movimento delle donne, che in questi anni hanno riempito anche le piazze del Brasile.

Sappiamo che chi, come Marielle, è sempre stata dalla parte delle donne nelle favelas, si opponeva in primo luogo alle politiche di “bonifica”(questo il termine tecnico usato per arresti di massa e uccisioni) da parte della polizia e alla concezione delle favelas come immensi quartieri dati in pasto alla criminalità organizzata. Le favelas rappresentano una necessità per il neoliberismo. Chi si è sempre schierato accanto alle donne, le più colpite dalla politica e dalla repressione, alle quali è preclusa ogni possibilità di uscire da una povertà assoluta, si è sempre ritrovata sotto attacco. In particolare, l’esecuzione di Marielle rappresenta un attacco a tutto quello contro cui lei stessa lottava: lo sterminio del popolo nero.

La marea femminista globale in questo difficile momento abbraccia le compagne femministe brasiliane, prendendo esempio dal coraggio e dalla forza di Marielle, gridando forte che “la nostra forza vi seppellirà!”.

Marielle è parte della marea femminista e la porteremo con noi in ogni latitudine e in ogni lotta a cominciare da quella contro il silenzio e l’oblio che cercheranno di far cadere su questo omicidio politico

Non un passo indietro. Non una di meno

Marielle Presente! Feminismo é revolução

8 marzo in Palestina - sotto le granate dell'esercito sionista e in prigione, la resistenza delle donne palestinesi è incoercibile

La giornata internazionale della donna è iniziata fuori del Youth Qalandia Club, con donne palestinesi, uomini e solidali internazionali in marcia verso le porte del famigerato checkpoint di Qalandia per protestare contro l'incessante occupazione militare israeliana, per i diritti umani fondamentali.

L'evento è stato organizzato dall'Unione generale delle donne palestinesi, un'organizzazione con l'obiettivo finale di elevare lo status delle donne in Palestina aumentando la partecipazione femminile alla vita sociale, economica e politica.

A metà della marcia, i militari israeliani hanno sparato sulla folla con lacrimogeni e granate. A un certo punto, una bomboletta di gas lacrimogeno è stata sparata e ha rotto il parabrezza di un camion vicino, facendo sì che l'autista fuggisse dal veicolo mentre si riempiva di gas lacrimogeno e alla fine ha preso fuoco. I palestinesi si sono precipitati al veicolo con estintori e hanno spento le fiamme mentre la protesta si era conclusa in modo drammatico. Fortunatamente nessuno è stato gravemente ferito o arrestato.

Il giorno prima, mercoledì, le donne palestinesi si sono riunite in Cisgiordania e nella città di Gaza per esprimere la loro rabbia al presidente degli Stati Uniti Donald Trump per la sua decisione di riconoscere Gerusalemme come capitale d'Israele.
Le manifestanti hanno anche chiesto la fine dell'occupazione in Cisgiordania, il diritto al ritorno e all'autodeterminazione e il rilascio immediato di prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane.





Secondo i dati rilasciati mercoledì dalla Società per i Prigionieri Palestinesi (PPS), attualmente Israele detiene 62 prigioniere palestinesi nelle sue carceri, tra cui 6 minorenni.

In un rapporto sulle donne palestinesi detenute, in occasione della Giornata internazionale della donna, PPS ha reso noto che tra le prigioniere ci sono nove ferite da proiettili sparati dalle forze israeliane, e 17 madri.

L’ultimo arresto è stato quello di Ahed Tamimi, che è stata prelevata dalla sua casa nel villaggio di Nabi Saleh, vicino a Ramallah, a dicembre, quando aveva solo 16 anni, e di sua madre, Nariman, arrestata lo stesso giorno della figlia, dopo essere andata a controllare la sua situazione nel centro di detenzione. Ahed è detenuta per aver schiaffeggiato un soldato che aveva invaso la casa della sua famiglia, e sua madre è stata arrestata per aver pubblicato un video sui social media che mostrava Ahed mentre schiaffeggiava il soldato. Entrambe sono ancora in attesa di una sentenza, dunque, in “carcerazione preventiva”.

Nel 2017, Israele ha arrestato 156 donne; 164 nel 2016 e 200 nel 2015.

La violenza e la discriminazione in Palestina sono aggravate dall’occupazione israeliana e dalle pratiche di apartheid che colpiscono tutti i palestinesi, ma in modo sproporzionato le donne. Un esempio della violenza dell’occupazione israeliana è il trattamento che riserva alle donne palestinesi prigioniere.

Ahed Tamimi

Forse il profilo più alto è quello della diciassettenne Ahed Tamimi. Ahed rimane in carcere dopo essere stata arrestata in dicembre per avere schiaffeggiato un soldato israeliano durante una manifestazione contro l’espansione degli insediamenti israeliani illegali nel suo villaggio natale di Nabi Saleh in Cisgiordania.

Il processo di Ahed in un tribunale militare israeliano è chiuso per gli osservatori (apparentemente per la sua “protezione”), rendendone quasi impossibile la copertura. La ragazza ha affrontato anche violenze da parte dei media israeliani. A dicembre il giornalista israeliano Ben Caspit ha scritto delle manifestazioni della famiglia Tamimi, in commenti in seguito ritrattati, che “nel caso delle ragazze, dovremmo esigere un prezzo in una qualche altra occasione, al buio, senza testimoni e telecamere”.


Manal Tamimi è un membro femminile meno conosciuto della famiglia Tamimi e non è estranea alla brutalità dell’occupazione. Nonostante gli sforzi per sabotare i suoi account nei social media, Manal riesce a riferire in merito alle violazioni sistematiche dei diritti umani che i palestinesi che vivono sotto l’occupazione israeliana  soffrono.

Facebook ha apparentemente limitato l’account di Manal dopo che il 25 febbraio aveva mandato in diretta le riprese di uno dei frequenti raid israeliani contro Nabi Saleh in cui sono stati rapiti otto giovani residenti. Tra gli arrestati c’era Mohammed Tamimi, cugino di Ahed.

L’arresto di Mohammed ha provocato una diffusa indignazione, poiché il ragazzo ha perso un terzo del cranio dopo che a dicembre era stato colpito a distanza ravvicinata da un soldato israeliano. Questo incidente scatenò la protesta in cui Ahed è stata arrestata.

Da parte loro, Rusaila e Sara Shamasneh sono madre e figlia abitanti della città palestinese di Qatanna. Sono state rilasciate dal carcere il 25 febbraio, ma non prima che Rusaila facesse ricorso a uno sciopero della fame per essere stata separata dalla figlia.

Cinque giorni prima erano state condannate a 40 giorni di carcere con l’accusa definita genericamente “incitamento”. Le accuse riguardavano commenti fatti due anni prima ai funerali del figlio e fratello Mohammed Shamasneh, ucciso dai soldati israeliani.

Dareen Tatour


L’esperienza del sistema giudiziario israeliano fatta dalla poetessa palestinese Dareen Tatour è un altro caso della sua ingiustizia. Inizialmente posta agli arresti domiciliari e con il divieto di usare internet dopo aver pubblicato una lettura di una delle sue poesie, la sua detenzione e il processo hanno finora preso più di due anni della sua vita.

972mag.com ha riferito a dicembre: “Nell’ultimo anno e mezzo, un dramma strano e inquietante si è svolto in un’aula di Haifa. Sul banco degli imputati c’è una poetessa sotto processo per una poesia politica che ha scritto, interpretato e pubblicato su Facebook. Se andrà in prigione per avere pubblicato quella poesia dipenderà in gran parte da come il giudice alla fine interpreterà alcune parole tradotte da un [ufficiale di polizia] la cui qualifica più alta è avere studiato letteratura araba alle superiori.

“Dareen Tatour, 35 anni, è cittadina palestinese di Israele della città di Reineh, appena fuori Nazareth. La sua poesia, “Qawem Ya Sha’abi, Qawemhum” (“Resisti il mio popolo, resisti”), è stata pubblicata nel 2015 al culmine delle proteste palestinesi portate avanti ovunque in Israele e Cisgiordania e di un’ondata di accoltellamenti del cosiddetto lupo solitario e attacchi con auto contro le forze di sicurezza israeliane e civili in gran parte a Gerusalemme e Hebron.

“Pochi giorni dopo, la polizia ha fatto incursione in casa sua e l’ha arrestata nel cuore della notte. Ha trascorso tre mesi in prigione e da allora è agli arresti domiciliari in attesa della conclusione del processo. È stata accusata di incitamento alla violenza ed di avere espresso sostegno per un’organizzazione terroristica”.

L’articolo osserva: “Il suo arresto e il processo politico rappresentano una nuova era terrificante in cui i palestinesi, e alcuni ebrei-israeliani, sono arrestati e incarcerati dalle autorità israeliane, a volte senza processo, per le cose che scrivono su Facebook …

“Negli ultimi due anni Israele ha arrestato centinaia di palestinesi … (e un esiguo numero di ebrei israeliani) per discorsi politici pubblicati online – principalmente su Facebook …

“A quasi tutti i palestinesi arrestati in questi giorni in qualsiasi contesto di dissenso politico o di protesta viene chiesto dai loro inquisitori di mostrare i propri account sui social media. I contenuti che vi si trovano diventano spesso la materia già pronta per accuse penali, la cui gravità è spesso calcolata in base al numero di seguaci, di mi piace, e di condivisioni di qualunque post sia considerato dannoso”.

Il caso di Tatour ha scatenato le proteste di una serie di importanti scrittori e di PEN International (International Association of Poets, Playwrights, Editors, Essayists, and Novelists), una ONG che supporta la libertà di espressione degli scrittori a livello globale.

Khalida Jarrar

Khalida Jarrar è un’avvocata dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), l’organismo ufficiale rappresentativo del popolo palestinese e un membro eletto del Consiglio legislativo palestinese per il rivoluzionario socialista Fronte popolare per la liberazione della Palestina (PFLP). È stata condannata a sei mesi di “detenzione amministrativa” nel luglio scorso dopo essere stata arrestata in un raid prima dell’alba a Ramallah, in Cisgiordania. È stata accusata di “incitamento alla violenza”.

La detenzione amministrativa è una misura controversa che consente alle corti israeliane di tenere i palestinesi in carcere senza accusa né processo. Nonostante non abbia affrontato alcun processo per l’accusa di “incitamento”, Jarrar a gennaio si è vista rinnovare il provvedimento di detenzione amministrativa per altri sei mesi, ha dichiarato Amnesty International.

Tali ordini possono essere rinnovati indefinitamente senza alcuna necessità di accuse contro la detenuta.

Il caso di Jarrar non è così conosciuto al di fuori della Palestina come quello di Ahed Tamimi, ma Amnesty International ha chiesto il rilascio di entrambe, così come la fine della pratica della detenzione amministrativa.

Un’aggiunta al profilo del caso di Ahed: la comica ebrea-americana Sarah Silverman ha affrontato l’indignazione dei difensori israeliani per aver chiesto la liberazione di Ahed. In precedenza Silverman aveva chiesto la fine dell’occupazione israeliana della Palestina e agli ebrei di difendere la stessa causa.

In un segnale della portata della solidarietà internazionale verso Ahed e altre prigioniere palestinesi, una coalizione di gruppi di donne in India – in rappresentanza di circa 10 milioni di donne – ha chiesto il suo rilascio e espresso il suo sostegno per la campagna globale di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele. La coalizione ha anche espresso la propria indignazione per l’uccisione dal 2000 di 500 donne palestinesi da parte delle forze di occupazione israeliane.

Affermazioni disperate

Il sostegno internazionale ai prigionieri palestinesi sta crescendo, facendo sì che Israele faccia passi talvolta bizzarri per screditare i dissidenti palestinesi. Ad esempio, in quella che sembra un’affermazione da un oscuro sito di cospirazione di estrema destra, Israele lanciò due anni fa un’inchiesta ufficiale sostenendo che la famiglia Tamimi – le cui prolungate dimostrazioni stavano attirando l’attenzione – erano in realtà attori che fingevano di essere palestinesi.

The Intercept ha riferito il 25 gennaio: “Michael Oren, alto funzionario israeliano incaricato della diplomazia, è stato ridicolizzato per l’ammissione di aver aperto un’indagine formale su una famiglia di attivisti palestinesi basata su una teoria della cospirazione su Internet, con cui si afferma che non si tratta di una vera famiglia, ma di una troupe di attori pagati per fingere di essere sconvolti dall’occupazione della loro terra in Cisgiordania …

“Alla richiesta di spiegare cosa lo abbia portato ad aprire un’indagine classificata come teoria del complotto … Oren ha detto ad Haaretz di sospettare che ‘i membri della famiglia siano stati scelti per il loro aspetto,’ apparente riferimento al fatto che Ahed e suo fratello minore Mohammed sono biondi e dalla pelle chiara.

“Ha anche trovato i loro abiti sospetti, definendo i loro jeans e le T-shirt un vero costume. Vestiti americani sotto ogni aspetto, non palestinesi, con cappelli da baseball all’indietro. Nemmeno gli europei indossano cappelli da baseball all’indietro”.

“E’ stato tutto preparato. Quello che è conosciuto come Pallywood”, ha aggiunto, riferendosi alla teoria del complotto di un blogger americano secondo cui tutti i video che documentano incidenti in cui soldati israeliani vengono ripresi mentre usano violenza contro palestinesi sono messe in scena.”

Tali affermazioni evidenziano la disperazione di Israele dietro al discredito di dissidenti pacifici come Ahed. Un editoriale di Al Jazeera del 15 gennaio ha suggerito che Ahed sta diventando una “Rosa Parks palestinese”, un riferimento alla famosa icona dei diritti civili afro-americani che si rifiutò di lasciare il suo posto a un uomo bianco in Alabama più di sessant’anni fa .

Queste tattiche disperate mostrano come la resistenza delle donne palestinesi stia terrorizzando Israele.

Parla Kenne, la moglie di Idy

La moglie dell’uomo ucciso a Firenze spiega cos’è il razzismo
Annalisa Camilli, giornalista di Internazionale - 13 marzo 2018

Non ha nemmeno quarant’anni, ma ha già perso due mariti nello stesso modo: entrambi uccisi per strada a Firenze da due italiani che non li conoscevano nemmeno.
Era nel suo paese a Morola, in Senegal, quando il 13 dicembre 2011 Rokhaya Mbengue, soprannominata Kenne, ha saputo che il suo primo marito, Samb Modou, era stato ucciso da un uomo bianco che si era messo a sparare contro i neri. Gianluca Casseri, un militante di CasaPound, aveva ucciso due venditori ambulanti senegalesi al mercato di piazza Dalmazia, nel centro di Firenze. Tra loro c’era Samb Modou.
Ricorda di essere rimasta senza fiato, per giorni con la sua unica figlia, Fatou, ad aspettare
che tornasse il corpo del marito dall’Italia. “Nella nostra religione, se uno muore dobbiamo seppellirlo il prima possibile per garantirgli la pace”, spiega Suleiman Seck, un cugino che è rimasto in piedi accanto a lei e l’aiuta a parlare quando le parole s’inceppano.
“Ho pensato che non mi sarei mai ripresa da quel dolore, era troppo”, ricorda Kenne. Ma poi per il bene della figlia Fatou, si è tolta il lutto e si è comportata come la famiglia le ha consigliato e come prevede la tradizione senegalese. Ha sposato uno dei cugini di Samb, Idy Diene, un uomo molto religioso che viveva in Italia dal 2001 e si era occupato di tutte le questioni burocratiche per il rimpatrio della salma. Dopo il matrimonio con Diene, Kenne si è trasferita in Italia. Voleva lavorare per assicurare un futuro a sua figlia Fatou, rimasta senza padre.
I primi tempi a Firenze sono stati duri, ricorda. Ma poi è stata assunta come badante nella casa di una signora che l’ha accolta come una figlia. “La mia vita insieme a Idy è stata bellissima: Idy era una brava persona, era gentile, il suo cuore era puro come quello di un diamante”. Rokhaya Mbengue si copre con il velo che le nasconde gli zigomi pronunciati e gli occhi allungati, cerchiati da un’ombra scura, dopo giorni di pianto. Anche la donna italiana per cui lavorava voleva molto bene a suo marito e ci parlava spesso al telefono, “perché Idy amava scherzare”. “Il giorno in cui è stato ucciso ci avevamo parlato verso le 10, avevamo riso”, racconta Kenne.
Solo due ore dopo, mentre era sul ponte Amerigo Vespucci a vendere ombrelli, Idy Diene, un uomo corpulento di 54 anni, che tutti dipingono come “un uomo di pace” è stato colpito da tre proiettili: uno alla nuca, uno al petto e uno alle gambe. A sparare il sessantacinquenne Roberto Pirrone, ex tipografo in pensione, che dopo essere stato arrestato ha detto alla polizia di aver sparato a caso contro il primo che passava, perché era uscito di casa per suicidarsi, ma non aveva avuto il coraggio di farlo.
Kenne non ha nemmeno voluto vedere la foto dell’assassino di suo marito. “Una persona buona è andata via, un uomo che pensava solo a lavorare. Ora chi si occuperà dei suoi figli?”. Se potesse incontrare Pirrone, Kenne non vorrebbe parlargli. È molto religiosa, crede nella giustizia divina. “Dio è grande, più grande di tutti noi, io voglio solo pregare per mio marito”, dice mentre le si spezza la voce. “C’erano altre persone sul ponte, ma la violenza omicida di Pirrone si è scagliata contro l’unico nero, colpito alle spalle. In sette anni sono morti tre senegalesi a Firenze, tutti nello stesso modo e noi ora abbiamo paura”, aggiunge Suleiman.Kenne non vuole più rimanere in Italia, anche se da poco ha ottenuto la cittadinanza italiana. Vuole tornare da sua figlia in Senegal. “Io ho paura a camminare per strada, ho troppa paura”, dice. Il razzismo per Kenne è il disprezzo immotivato e quotidiano, che può diventare improvvisamente una condanna a morte. “A volte salgo sull’autobus e mi siedo. E subito quello che è accanto a me si alza perché io sono nera”, racconta. “Molte volte i colleghi al lavoro nemmeno ci dicono buongiorno e non rispondono quando li salutiamo”, aggiunge Suleiman. “Altre volte ci insultano per strada o sui mezzi pubblici senza motivo”.
Aliou Diene, il fratello minore di Idy, è distrutto. È stato lui a convincere il fratello a venire in Italia nel 2001, perché aveva trovato un buon lavoro a Firenze in una pelletteria, e sperava che anche lui potesse trovare qualcosa di simile. Invece Idy Diene faceva l’ambulante: vendeva accendini, fazzoletti, ombrelli. Non era mai riuscito a stabilizzarsi e anche per questo da tre anni aveva problemi a rinnovare il permesso di soggiorno, così non poteva tornare in Senegal a trovare la famiglia. “Era un uomo di pace, non aveva problemi con nessuno. Non aveva mai litigato con nessuno”, racconta Aliou. “Ogni cosa che aveva era pronto a dartela, era una persona generosa”, aggiunge con una voce morbida Abdullahi, il figlio diciottenne di Aliou. “Mi ha cresciuto come un figlio e aveva sempre buoni consigli per me”.
Non è più il tempo della paura
“Quando vedevo tutte quelle persone arrivare alla manifestazione, molti italiani che conoscevano Idy e che piangevano per lui, le mie lacrime si sono fermate. Le loro lacrime asciugavano le mie lacrime”, racconta Suleiman che insieme ad Aliou e ad altri familiari ha aperto la manifestazione contro il razzismo che ha portato in piazza diecimila persone a Firenze il 10 marzo. “Più eravamo e più non sentivo paura”, continua. “Idy aveva molta paura dopo che era stato ucciso suo cugino Samb Modou”, racconta Suleiman. Gli aveva raccontato che quando vedeva un bianco mettere le mani in tasca si allontanava perché temeva che potesse estrarre una pistola. “Eppure la sua paura non l’ha salvato, questo significa che non è più il tempo di avere paura”, conclude. 
Molte persone amavano Idy e tanti lo conoscevano. I commercianti di Firenze hanno fatto una colletta per la famiglia e anche gli insegnanti di Abdullahi, il figlio di Aliou, si sono offerti di raccogliere soldi per la famiglia. I familiari hanno aperto un conto a nome di Aliou per sostenere le spese del rimpatrio della salma e per aiutare i figli di Diene, che sono rimasti in Senegal. “Siamo tutti uguali, il sangue che ci scorre nelle vene è rosso. Belli e brutti, bianchi e neri, siamo tutti uguali”, dice Abdullahi.
“Ho molti amici italiani che per me sono come fratelli, anche se mio zio è stato ammazzato da un bianco”, continua il ragazzo che frequenta le superiori in Italia e vorrebbe tornare in Senegal dopo il diploma per aprire un’officina meccanica. Il razzismo per Abdullahi nasce dal colonialismo: “Gli europei ci trattano ancora come schiavi, come i nostri antenati. Ci considerano inferiori quando veniamo in Europa per lavorare. Ci odiano perché vogliamo vivere come loro”. 

L'8 MARZO A TARANTO - PARLANO LE LAVORATRICI SUPERSFRUTTATE


14/03/18

Francia - 8 marzo in Haut-Rhein


"Abbiamo aperto le porte e siamo uscite!" - Ebook InfoAut sulle lotte alla Yoox

Da infoaut:

"Abbiamo aperto le porte e siamo uscite! - Voci di lotta alla Yoox", scaricabile a questo link.


Il titolo ricalca la frase di una lavoratrice della Yoox che nel 2014, insieme a tante sue colleghe di lavoro e a tanti solidali, mise in campo unalotta molto dura contro le molteplici condizioni di sfruttamento a cui doveva sottostare in quanto donna, in quanto operaia, in quanto migrante.
Obiettivo di questa pubblicazione è, come scrtitto nell'introduzione curata dal Laboratorio Crash!, "raccontare questa esperienza in un ebook a ridosso dell’8 marzo come strumento di discussione e dibattito, facendo parlare soprattutto le operaie a partire dalle interviste che vennero fatte durante i mesi di mobilitazione. L’immagine che crediamo esso rimandi è quella di un campo di possibilità che si muova all’interno di un metodo che, più che partire da ‘temi generali’, possa invece sviluppare processi di lotta e soggettivazione e possibile generalizzazione a partire da un’articolazione nel concreto di contraddizioni sociali da far esplodere."
La postfazione, che segue diversi testi di inchiesta di InfoAut scritti nel caldo delle lotte, è a cura dell'avvocato Marina Prosperi, che segue le facchine e i solidali imputati da ieri in un processo in merito alle mobilitazioni contro Yoox. Per l'avvocato, si può parlare di un primo #metoo operaio, in cui le facchine "hanno cercato di modificare la propria condizione di donna giovane, migrante e sfruttata, senza guardare se sopra il camion ci fosserotelecamere; o forza pubblica con manganelli, e zelanti ufficiali pronti alla denuncia".

Di seguito l'indice dell'ebook:
  • INTRODUZIONE.............................................................................PAG.3
  • INCHIESTA OPERAIE YOOX: ”ABBIAMO SPALANCATO LA PORTA E SIAMO USCITE!”...................................................................................PAG. 5
  • SISTEMA YOOX: SE NEL “MAGAZZINO DEGLI SCHIAVI” SCOPPIA LO SCIOPERO.................................................................................PAG.11
  • “QUANDO NON SERVI RESTI A CASA". UN’INTERVISTA AD UNA LAVORATRICE SUL MODELLO YOOX..........................................................................PAG.20
  • CASO DISCRIMINAZIONI ALLA YOOX, INIZIA AD EMERGERE LA VERITA’!............PAG.30
  • BOLOGNA, CONDANNA A 18 MESI A RESPONSABILE MR.JOB/YOOX.................PAG.32
  • POSTFAZIONE: IL PRIMO #METOO OPERAIO?..........................................PAG.34

In solidarietà a Maya! A difendere il poliziotto, accusato di lesioni, è Anna Ronfani, vice presidente del Telefono Rosa


Si sono da poco chiuse le indagini per la vicenda che ha visto coinvolta Maya lo scorso giugno, e per la quale la rete Nudm Torino scrisse un comunicato.
Il poliziotto che le ha sferrato un pugno dovrà rispondere di lesioni con l’aggravante di aver commesso il fatto “con violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione”. Si tratta di un piccolo ma importante passo, per nulla scontato come ci dimostrano le innumerevoli storie di violenza commesse dalla polizia che solitamente non comportano conseguenze per chi le commette. Neanche il fatto che ci sia un video registrato dalle telecamere della caserma di via Tirreno è una prova sufficientemente solida per i tribunali.
Proviamo a immaginare questo poliziotto entrare in un’aula di tribunale con l’accusa di aver picchiato una giovane donna - mentre era in servizio, con indosso la stessa divisa che indossano i suoi colleghi quando ricevono denunce di violenza da parte delle donne – difeso dalla vice-presidente del Telefono Rosa di Torino.
Ci chiediamo: quali saranno le argomentazioni della difesa? Che non è mai successo? Che se l’è cercata? Che non avrebbe dovuto immischiarsi? Che non avrebbe dovuto essere in giro a quell’ora? L’avrà forse provocato?
Non sono esattamente le stesse argomentazioni che chi gestisce un servizio a supporto delle donne che subiscono violenza si trova a dover contrastare ogni giorno?
Ovviamente l’avvocata Anna Ronfani non è lì in veste di vice-presidente dell’associazione ma quanto ha pesato nella scelta di nominare proprio lei, il suo presunto ruolo nella difesa della donne? Crediamo che venda anche (e soprattutto) questo al suo cliente per tentare di migliorarne l’immagine.
Non ci stupisce ma ci provoca un’enorme rabbia la gravità di questa scelta. Immediatamente il pensiero va alle studentesse americane violentate dai carabinieri a Firenze e all’interrogatorio che hanno dovuto subire così come non possiamo non pensare con rabbia alle pericolose retoriche securitarie dei politici tutte giocate sul corpo delle donne in questi giorni di campagna elettorale. Nello stesso tempo in cui leggiamo sulle cronache di un carabiniere che spara a moglie e figlie dopo che lei si era rivolta ripetutamente alla polizia per denunciare le violenze del marito senza essere ascoltata, senza che nessuno intervenisse: è necessario difendersi e non stare zitte!
Maya ha deciso di non tirare dritto per la sua strada quella sera di giugno e ha avuto l’enorme coraggio di denunciare il prezzo pagato in caserma per il suo coraggio, addirittura ricevendo un pugno in faccia!
Non è stata zitta e ha deciso di denunciare pubblicamente l’accaduto nonostante le provocazioni e le intimidazioni, ha scelto di andare in quei tribunali che ancora troppo spesso sono luoghi dove la violenza sulle donne prosegue, dove ci si trova troppo spesso a passare sul banco degli imputati a subire domande umilianti, a dover dimostrare di essere abbastanza credibile, di aver sofferto e urlato abbastanza, di essere moralmente irreprensibile altrimenti…
Maya non si è tirata indietro di fronte a tutto questo e noi vogliamo che si sappia che di fronte a lei, a difendere l’uomo che l’ha picchiata, c’è la vice-presidente del Telefono Rosa di Torino! Anche per questo Non una di Meno ha un Piano in cui è scritto nero su bianco come vogliamo che siano i Centri Antiviolenza e chi vogliamo incontrare in quei luoghi.
Questa è solo una delle molte ragioni per cui diciamo che non è sufficiente essere donne per essere tutte dalla stessa parte. I posizionamenti, gli interessi, il potere fanno la differenza, eccome.
Maya però non è da sola. Noi stiamo con lei! #wetoogether
Non Una Di Meno-Torino